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​Dedicato a George Floyd

di - lunedì 08 giugno 2020 ore 07:00

Le grandi manifestazioni che stanno scuotendo gli Stati Uniti mi riconciliano con questo grande paese. Donald Trump si è rifugiato in una Casa Bianca circondata di fili spinati. Ho gli stessi sentimenti di vicinanza per il popolo americano che avevo negli anni settanta quando la polizia picchiava e massacrava nei campus i ragazzi che protestavano contro Nixon per il Vietnam. 

Trump, in questi anni, ci ha consegnato un’immagine spietata, violenta, carica di ingiustizie. I muri più alti alle frontiere e ovunque il rinascere di sentimenti razzisti e xenofobi verso gli immigrati. Le strade piene di uomini e donne “contro" esaltano un concetto non divisibile e una parola che non si può spezzare o soffocare con un ginocchio nel collo di un giovane afroamericano: libertà. Forse la parola più importante che assieme alla parola giustizia, riesce ancora a commuovermi e indignarmi. 

Conservo nel cuore il mito americano. Anche quando arrivai negli Stati Uniti per la prima volta, in quel lontano 1975, ero carico di un sentimento positivo. Quell’America che rimaneva per me, nei momenti in cui mi spogliavo della mia identità di militante comunista, il continente dove era vivo il senso della libertà e della democrazia. Il Paese al quale la storia aveva affidato il compito di salvare, assieme all’Unione Sovietica, il mondo dalla follia nazifascista e di difenderlo dal delirio di onnipotenza dell’imperialismo giapponese.

Quell’America che aveva conquistato la luna – anche se io, allora, avrei preferito lo avesse fatto Gagarin. Gli Stati Uniti: un paese pieno di contraddizioni. Forse incomprensibile. Che bellezza l’America che emergeva dai racconti di Saroyan e con lui, i tanti altri scrittori, Caldwell, Steinbeck... a raccontare una terra che sapeva rapirmi anche se, per alcuni aspetti, inumana, violenta, carica di ingiustizie. 

L’America è stata un mito, un sogno, una suggestione infantile a cui resto ancora oggi affezionato. Nessun evento è riuscito a scuotere questo mio strano innamoramento. L’America era la musica della West Coast, era Bob Dylan, Angela Davis, era anche il country e il folk del profondo sud. 

L’America era un pollice puntato al margine di una strada, la 66, che tagliava il continente e un campus dove non sapevi se avresti preferito incontrare gli studenti in sciopero di Berkeley o gli studenti fuori di testa alla John Belushi. L’America era la libertà. Già, la libertà. Aveva un senso? Uno solo, ma bastava: ero un comunista e il mio era un modo di essere contro. Di essere contro stando qua, ovviamente, non là. 

Non era solo l’America dei pionieri o del genocidio indiano, o degli emigranti di Ellis Island, della sciagurata avventura vietnamita o della criminale ingerenza di Kissinger e della Cia nei colpi di stato in America Latina. Oggi milioni di persone ci donano l’altra faccia dell’America. 

Grazie George.


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