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L’abbraccio di Narciso

di - sabato 28 novembre 2020 ore 09:00

Mi manca l’abbraccio, lo dico subito. Mi manca quell’affetto, quella semplicità. Quel sostituto delle parole che porta con sé forza e calore. E tutto ciò che le parole non hanno mai saputo esprimere.

Mi manca l’abbraccio e mi mancano coloro che ne sono portatori ma capisco che non ci sia molto che io possa fare: rispetto le attuali indicazioni che ne vietano l’uso e, soprattutto, le comprendo trovandole estremamente ragionevoli.

Di abbracci negati, a così tanti giorni dall’abiura collettiva al potere benefico dell’abbraccio, ne ho perso il conto ma trovo che, nonostante l’occasione legata a questo momento storico, ci sia qualcosa di antico, atavico, umano e mondano nella necessità del non avvicinarsi, del non toccarsi, del non potersi abbracciare. In questa rottura di un rito così potente e così antico.

Serve dunque tornare a figure autorevoli, forse, per cercare illuminazioni. Per raccogliere la sfida delle relazioni. A quelle figure del mito da cui siamo abituati a lasciarci ispirare in cerca di risposte. Ed io una risposta, a questo mio dilemma dell’abbraccio, credo d’averla trovata nella figura di Narciso, il figlio della ninfa Liriope e del dio fluviale Cefiso. La trovate qui sotto in forma di racconto. Anzi: di abbraccio collettivo per chi soffre di questo mio stesso piccolo malessere.

Un abbraccio s’apriva e si chiudeva così bene che chi lo portava in giro non se ne dava pace. Erano giorni di abbracci negati, di chiusure forzate, di solitudini marcate ma il nostro portatore dell’abbraccio, a dispetto di tutto ciò, sentiva le braccia fremere e le mani tendersi in avanti, chissà perché, chissà in cerca di cosa o di chi. E l’abbraccio partiva, sconsiderato.

Dietro consiglio degli amici il portatore dell’abbraccio s’era fatto visitare dal suo medico di famiglia.

- Che hanno le sue braccia?

- Niente, niente. Lavorano anche piuttosto bene, si figuri. Quasi non le sento. Eppure ci sono momenti che non riesco a tenerle ferme e parte un abbraccio.

L’abbraccio colse il dottore di sorpresa. Si sentì stringere e rimase per un secondo inerte. Erano seduti a debita distanza ma il portatore dell’abbraccio era stato così fulmineo da non concedergli alternative. Fu un attimo di calore umano e il medico saltò dalla sedia, schiaffeggiò il paziente e via, sotto la finestra, che teneva sempre aperta, ormai, anche d’inverno.

- Non ci riprovi! Ha fatto una cosa gravissima! Le faccio richiesta di un tampone, immediatamente!

- Lo vede? Proprio di questo le parlavo - sussurrò il portatore dell’abbraccio, la mano sulla guancia dolorante.

Il tampone, dall’esito negativo, tranquillizzò il dottore ma non tranquillizzò il portatore dell’abbraccio. Fu in quei giorni che iniziò la terapia.

- Le consiglio di parlare con se stesso.

Il terapeuta gli sedeva di spalle, le mani in avanti, pronte a fermare qualsiasi tipo di contatto, di abbraccio.

- Parlare con me stesso, dice. Intende allo specchio?

- Anche. Deve convincersi che l’abbraccio non è più possibile. Si dica che non va più di moda. Pensi a quanti starnuti, ormai, riposano sulle maniche dei nostri maglioni. Ma lei vorrebbe essere abbracciato da uno starnuto?

- Io no. Io lo so che non va bene. È l’abbraccio che mi porto in giro che non lo sa.

- Ecco, glielo spieghi. Lo tranquillizzi.

- Lo tranquillizzo?

Qui si girò e il terapeuta non fu veloce come avrebbe sperato. L’abbraccio lo strinse come una morsa. Era un abbraccio forte e volitivo, forte d’affetto, volitivo per i tanti abbracci perduti. Il terapeuta si sentì svenire ma fu solo quando cominciò a tossire, per la mancanza d’aria - il terapeuta s’era messo in testa di non respirare in quel momento di inaspettata e indesiderata prossimità con un essere umano - che il portatore dell’abbraccio riuscì a portare via il suo abbraccio. Lo staccò, di forza, tendendo le braccia fino a portarsi le mani dietro alla schiena e a stringerle in un abbraccio improprio fra loro stesse. Si scusò, indietreggiando, fino a raggiungere l’uscita con un malessere nel cuore che mai aveva provato prima.

Quella sera, il portatore dell’abbraccio, si abbracciò. Ne sentiva un vero bisogno. Accadde davanti allo specchio. Per sua fortuna teneva in casa uno specchio autoportante, un regalo di sua nonna, uno di quegli specchi sviluppati in altezza, che non hanno bisogno di muri perché hanno gambe proprie a tenerli in piedi. L’abbraccio partì nel bel mezzo di un discorso assai profondo che il portatore dell’abbraccio stava tenendo a se stesso e al suo abbraccio ma che dimenticò immediatamente. Sentì prima vibrare le punte delle dita, poi le mani, quindi le braccia a partire dal gomito. Sentì l’abbraccio muoversi, dirompente, ma, finalmente al sicuro, non provò nemmeno a fermarlo. Le braccia passarono dietro allo specchio con una normalità inaspettata. Si strinse a quel piccolo oggetto quotidiano incorniciato di legno con una naturalezza che lo sconvolse. Pianse anche un pochino in quell’abbraccio stretto con se stesso.

Si sentì Narciso e un po’ si vergognò per quello che sapeva di quell’antico cacciatore greco, ma non lo disse a nessuno perché non si abbracciava per amore, si disse, ma per necessità. Per un estremo bisogno di umana complicità; sebbene la malattia del nostro tempo che lascia liberi gli abbracci di rivolgersi solo a se stessi, al pari dell’amore di Narciso, assomigli fin troppo ad una sorta di eguale “punizione”.

Da quella sera iniziò a guarire, con lentezza, merito della sua fermezza. Guarì se stesso e, grazie al suo specchio, alla fine riuscì a guarire anche il suo abbraccio.


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