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Piccolo racconto

di - venerdì 08 settembre 2017 ore 08:00

scritto in un'estate tremenda, per il caldo, per gli intolleranti e i razzisti di casa nostra..

Antartide, meraviglioso vuoto. Non solo continente bianco, ma anche continente che è di tutti e di nessuno. Senza confini che lo attraversano, senza bandiere che rivendichino una sovranità, senza armi.
Continente dei pinguini che marciano dove l’istinto gli suggerisce di muoversi, lasciando dietro solo le loro orme; che si riparano insieme, quando necessario. Ne avremmo da imparare dai pinguini, noi, i padroni della terra.
Quella volta in Antartide ho dovuto farmi forza, forse violenza, per strapparmi al vuoto. Per ritornare alle considerazioni che sono di tutti i giorni.

Sì, credo proprio che sia da allora. E certamente prima di quest’estate tremenda.
In ogni caso su questo ho investito il mio tempo. In qualche modo ho provato a decifrare quanto sta succedendo al nostro pianeta.
Ho ragionato su quella globalizzazione che oggi sembra la risposta a tutto o quasi tutto e che invece, figurarsi, c’era anche ai tempi del Congo Belga. E per inciso, consiglio di lettura: provate Congo di David Van Reybrouck, storia monumentale e magnifica di un paese di cui mancavano anche le mappe, ma che possedeva il caucciù e l’uranio. Dalla giungla a Wall Street.

Mi sono interrogato sulle frontiere che un tempo proteggevano il sacro suolo della patria e che oggi tengono lontani da un bene ancora più importante, i diritti di cittadinanza.
Con Zygmunt Bauman ho girato intorno all’idea che i confini possano proteggere dall’inatteso e dall’imprevedibile - «ci permettono di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia» - e ho trovato singolare che proprio il teorico della società liquida dovesse occuparsi di ciò che, tra tutto, è meno liquido: perché può essere immaginario, il confine, ma certo non liquido.

Mi ha fatto bene discutere di tutto questo insieme. Forse mi ha aiutato anche a scansare qualche arrabbiatura, come quando ho letto di Capalbio, l’Atene di Toscana come la chiamano, che è diventata un caso nazionale per l’accoglienza che non si vorrebbe concedere a cinquanta profughi. O come quando mi è toccato di ascoltare l’ineffabile Matteo Salvini sbraitare sulle città da ripulire dagli immigrati, oppure quelle frasi scritte in un libro"aiutiamoli a casa loro, non possiamo accoglierli tutti" come se cento o un milione di disperati fossero "tutti". Oppure rimandarli nei campi di tortura e di morte nella profonda Libia. Come non capire che ogni persona è una storia , nessuna persona è illegale.
Non che mi indignino meno, certe cose. Solo che preferisco ragionare. Capire. Gettare ponti. Viaggiare. Varcare confini. Incontrare "l'altro" il diverso da me e arricchirmi sempre dalla sua conoscenza.

Se possibile, indugiare lungo quelle frontiere che sono territorio misto, dall’appartenenza incerta.

E ritornare. Raccontare. Ripartire.


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