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Attualità lunedì 02 novembre 2020 ore 10:51

Il teatro resisterà al Dpcm, gli attori forse no

Gianni Micheli

Gianni Micheli, noto artista aretino esprime le preoccupazioni per l'intero indotto dello spettacolo



AREZZO — Cosa sarà del teatro? A questa non facile domanda risponde Gianni Micheli, noto performer aretino, autore di libri e spettacoli teatrali, musicista e collaboratore di Officine della Cultura.

Micheli esprime tutta la sua preoccupazione, non tanto per l'Istituzione teatrale e dello spettacolo, quanto per l'intero comparto, che continua a navigare a vista e senza nessuna certezza per il futuro.

Il teatro sopravvivrà alla sua chiusura. Lo racconta la storia. Non c’è da aggiungere altro. È sopravvissuto persino al cinema. L’avreste detto, voi, agli albori del XX secolo, che oggi teatro e cinema si sarebbero trovati nelle stesse piazze per tenere la luce accesa? Molto probabilmente no. Ed anche il cinema sopravvivrà. È sopravvissuto persino al VHS. L’ha seppellito. Non lo dice nessuno che non tornerà a far brillare le stelle, non lo dico io e non lo dice chi lo fa. Il teatro e il cinema sono contenitori meravigliosi, indispensabili, sopravvivranno. Il vero problema, contemplando i mesi di fermo causa pandemia, è se sopravvivrà a tutto questo una generazione di artisti e di lavoratori dello spettacolo, la nostra. Le risposte si fanno vaghe. La storia è ancora muta.

Sopravvivranno i più abbienti, certo, e quelli che sapranno reinventarsi con più fortuna e mestiere. Tutti gli altri, insieme alle sale che gestiscono, specialmente se piccole, indipendenti, con la testa dura o “tra le nuvole”, non ce la faranno ma se ne accorgeranno in pochi. A fine pandemia il PIL tornerà a crescere e non si parlerà d’altro che di “rinascita” mentre di una generazione di creatori di sogni smarrita non si parlerà più. A conti fatti c’è da pensare che, tra qualche mese, per questi non sopravvissuti non ci sarà modo d’entrare nemmeno in una statistica, se non forse in quella, numerosa, dei senza tetto. Dei pasti della Caritas. Li incontreremo agli angoli dei nostri quartieri, cantando canzoni, con il cappello in terra. Li riprenderemo con i telefonini, li metteremo perfino in rete, se sapranno catturare il nostro sguardo con un’esibizione estrosa. Eppure non li riconosceremo. Anche questo lo racconta la storia. Mette tristezza, vero? Sembra una favola cupa da non raccontare ai bambini. È la verità.

La parte più difficile da narrare in questa trama che è minuscolo frammento della lunga storia dell’umanità - di scomparsi per leggi degli uomini e degli Stati se ne contano a centinaia di migliaia, purtroppo, in ogni tempo, per ogni pandemia sanitaria e morale - è che allo scomparso sarà dato di cadere nell’oblio con la ragione del giusto e la perdita della fiducia riposta nel valore più alto delle istituzioni. E questa è la parte che sgomenta davvero i tanti professionisti della scena che stanno manifestando in questi giorni contro il DPCM del 24 ottobre - perché non manifestano contro la loro prossima e possibile scomparsa, non solo, sia chiaro!

La casa dell’ingiustizia sta in un oblio avvenuto nel rispetto di tutti i protocolli. Nel porre risposta, con scrupolo e sacrificio, a tutte le richieste. Nel presentare, perfino ed anche se non dovute, statistiche meritorie del proprio comportamento virtuoso. Scomparirà a dispetto di tutta la sua determinazione, la sua caparbietà, la sua buona volontà, il suo altissimo senso civico. Scomparirà avendo la percezione chiara della valutazione in denaro del proprio contributo alla società, proprio lui che al denaro, quasi, non pensa mai. E questo alimenterà la sua maggiore tristezza.

La casa della sfiducia sta in un “ristoro” che traduce le parole con sentieri di burocrazia. Rende il parlato autentico di una conferenza stampa nazionale la babele delle lingue dei singoli uffici delegati dove i conti tornano a fatica, le leggi si scontrano con le leggi, la semplificazione diventa digitazione, gli asterischi motivano errori che garantiscono ritardi. E in breve i ristori non ristorano, i mesi passano, i telefoni squillano ma nessuno risponde e le professionalità scompaiono. Semplicemente. Silenziosamente. Per non dire dell’incapacità dei ristori di cogliere il senso e il valore di una programmazione, di una scommessa che deve gestire il tempo parallelamente al denaro e alla vita di chi vi prende parte insieme alle famiglie che gli ruotano attorno, di un sogno che deve farsi materia scenica, materia umana. I ristori hanno una visione miope e nessuna lente correttiva da porre sul naso.

Giustizia e fiducia sono parole chiave dei creatori di sogni (sono parole chiave di molti, in verità - dovrebbero esserlo, forse, di ciascuno di noi). Quel “riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto” della giustizia avvicina il sogno al PIL (lo pensano solo i creatori di sogni, naturalmente), non fa distinzione. Assimila il benessere di un’intuizione a una puntura di eparina, fa scorrere il sangue nelle vene: si chiama vita. Quel “confidare nelle proprie e altrui possibilità” della fiducia rende invece il creatore di sogni sicuro di sperimentare fantasia in un mestiere che ha poche tutele, ancora meno diritti se non quelli riconosciuti dalla felicità che condivide, a piene mani. Di dare tutto ciò che può al territorio in cui opera, in termini umani ed economici. Di sentirsi chiamato in ogni questione di civiltà, di responsabilità. Di sentirsi elemento attivo e coagulante di una società in continua trasformazione. Venuti meno questi due pilastri di cosa potrà parlare il creatore di sogni a quell’umanità che sente sua più della sua stessa firma su un foglio di carta? Ed ecco che, oltre al lavoro, vede perduta persino la parola.

Ne sono consapevoli: i non sopravvissuti, nel tavolo di questa discussione, riempiono città intere. Le priorità puntano il dito sulla sicurezza sanitaria e ciò che è sacrificabile è sacrificato. Ciò non toglie il senso di un’ingiustizia subita che anche il semplice passeggiare alimenta perché, al di là di quello che dice la curva pandemica, è sotto agli occhi ed è, soprattutto, nel cuore. Ed i lavoratori dello spettacolo, di cuore, ne hanno da vendere. In pratica hanno solo quello ma se c’è una cosa che sanno fare con assoluta maestria (assoluta maestria non contemplata dal PIL, s’intende) è farlo passare dalla testa, dai piedi, dalle mani, dalla bocca, farlo essere, insomma, tutto ciò che sono. Toccategli il cuore e i creatori di sogni scenderanno in piazza. Pacificamente.

Ma non si potrebbe, dico, utilizzare tutto questo cuore dei creatori di sogni, per le cose dello Stato e della gente, per tirarne fuori idee, proposte, soluzioni? Il nostro progresso, il nostro benessere attuale, non si deve forse in parte anche ad una miriade di creatori di sogni intossicati d’amore per il genere umano?

Di creatori di sogni ne verranno altri. Anche i creatori di sogni sopravvivranno. Almeno finché sopravvivrà la specie certo ne avremo per tutti i gusti. È per la mia generazione di creatori di sogni che sono preoccupato. Tenete duro. Teniamo duro. Guardatevi attorno, cercate amici. Sopravviviamo, almeno per il gusto di raccontare cosa è per noi giustizia e cosa è per noi fiducia. E come siamo riusciti a non scomparire. Chi altro potrebbe farlo se non noi? Certo: appena sarà possibile.

La foto pubblicata a piè pagina racconta il Teatro Verdi di Monte San Savino. Un teatro chiuso che ieri, nella maggiore sicurezza sanitaria possibile, quella della rete, ha presentato la Stagione Teatrale 2020/21. Inizierà a gennaio 2021. Nel rispetto dei protocolli se i protocolli rispetteranno i lavoratori dello spettacolo.

Gianni Micheli


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