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Attualità giovedì 24 dicembre 2020 ore 23:20

L’omelia del vescovo “ricostruiamo il meglio”

Le parole di Monsignor Fontana in Duomo per la messa della notte di Natale, anticipata a causa della pandemia e del coprifuoco



AREZZO — In Cattedrale, come nelle altre chiese, messa della notte di Natale anticipata a causa del coprifuoco. Ecco l’omelia integrale dell’arcivescovo Riccardo Fontana. 

“Quasi una primula che annunzia la primavera della rinascita.

Puer natus est nobis” – un bambino è nato per noi, già lo aveva annunciato Isaia otto secoli prima della nascita di Gesù. “Puer natus est nobis”, così scelsero di cantare anche in Arezzo i cristiani, sotto le volte di questa Cattedrale appena costruita, un canto che esprime l’intuizione profonda della Chiesa medievale, che Gesù è appunto nato per noi, per farci trovare il fascino dell’alternativa ai mali del mondo e alla logica della rassegnazione. Per noi il bambino, Figlio di Dio, è nato nella notte di un giorno qualunque, in mezzo a difficoltà di ogni genere, infrangendo una cultura divenuta autoreferenziale. L’evento si collocò non nel centro del mondo, ma nel piccolo borgo di Davide, nella “casa del pane” , chiamata Betlemme, periferia dell’allora grande Impero Romano.

Dio sceglie di entrare nella storia, facendosi infante, cioè una persona umana che ha bisogno di tutti: non possiede nulla, pur essendo il Figlio di Dio, come tutti i bambini appena nati, fragili e indifesi, eppure capaci, ancora oggi, di destare il sorriso, di esprimere un cambiamento nella storia di ogni famiglia.

Gesù ha voluto essere figlio di una famiglia povera, in una comunità umana misera al punto di non accogliere neppure una parente vicina al parto, una comunità chiusa in se stessa. Chiusura di tutti, eccetto le grotte usate, di solito, per accogliere il gregge nelle notti di gelo, con i poveri che capiscono più dei grandi della Terra la stella cometa in rappresentanza degli astri e un bue e un asinello, espressione del mondo animale, che hanno più pietà di quello razionale.

La piccola Betlemme di duemila anni fa è l’immagine di un mondo che pensa solo a se stesso, ma ci sono sempre altri, allora come ora nei paesi lontani, capaci di far meglio. Poco più in là, nella campagna di Beit Sahour non ci sono i ricchi proprietari di migliaia di pecore, ma i servi pastori, custodi di greggi di proprietà d’altri da difendere dalla rapina, nella notte. Sono abituati a qualcosa di meno dell’essenziale, non hanno però perso la secolare capacità dei migliori Figli d’Israele d’essere in grado di ascoltare la voce degli Angeli.

Gloria in excelsis Deo et in terra pax. Dio si svela, ancora, stanotte nell’umiltà indifesa del bambino, Figlio di Dio, nato per noi, per quanti ne siamo in questa Cattedrale antica e il gran numero di quelli che, attraverso i sistemi mediatici, non potendo venire, sono uniti alla nostra preghiera. È la possibilità dell’alternativa, che forse riesce ancora ad affascinarci.

Come i personaggi del presepe di San Francesco, disposti a un lungo cammino a piedi pur di incontrare il Signore, ci sono anche molti nostri contemporanei che riescono a capire il segno del neonato, quasi una primula che annunzia la primavera della rinascita. Come fa la grande scienza, che per farsi capire ricorre al linguaggio umile di una primula, capace di evocare la poesia di Dio che non ci abbandona. Dio mette ancora le mani nella storia e ne fa luogo di salvezza.

La notte si può infrangere, bastano piccole lucerne in mano ai poveri della Terra, che chiedono di recuperare almeno la poesia del dubbio, attraverso la consapevolezza che ci può essere un’alternativa alla terribile litania del panico, che ha segnato questi mesi. Dio è con noi, ancora una volta, non nelle operazioni che ostentano potenza, ma nella semplicità che riprende le relazioni e mostra che, pur di parlare a tutti gli uomini e le donne della Terra, ricorre alla fragilità di un neonato perché nessuno perda la speranza di una vita nuova e alternativa da costruire insieme. Lo aveva già intuito Sant’Agostino, che predicava ai suoi che “il Verbo eterno si fece bambino infante – cioè ancora incapace di parlare –, schiuderà la mia lingua d’infante incapace di dire, e mi farà esprimere con la bocca quello che mi ha fatto intuire nel cuore

Ricostruire insieme

La pandemia, e poi? Da cristiani non possiamo accontentarci di ricostruire quello che c’era e che è andato perduto. Ci era caro, perché conosciuto, come le pantofole dei vecchi alle quali si è abituati a dare apprezzamento, anche se sono vecchie e consumate. Dio, in questo Natale ci chiede di essere capaci di costruire il meglio.

Ogni giovane coppia, fissando gli occhi sulla creatura che ha generato, riesce facilmente a sognare una storia bella per il figlio. Ritrova, anche nelle difficoltà economiche e sociali, la consapevolezza che, solo educando, renderanno il piccolo capace di cose grandi. così tocca fare tutti insieme. I nonni hanno la funzione non solo di ricordare ciò che il morbo ha distrutto, ma anche quella di far capire che questa che stiamo vivendo è la linea di partenza di una corsa che ci aspetta. Non possiamo sprecare il tempo in polemiche senza senso e tantomeno avvalerci delle complessità del presente, in cerca di vantaggi personali.

Per le donne e gli uomini di fede, Natale non è una data del calendario. Sono caduti i riti del consueto, le abitudini festaiole, la tristezza di una liturgia civile fatta di gesti superficiali, gusti e profumi scontati, che appartengono inesorabilmente al passato. Cercare di essere buoni perché è Natale è una maschera posticcia più di quella che portiamo sul volto. Occorre riproporre, a partire dai cristiani che ci stanno intorno e non da una posa dettata dalle tradizioni, una manifestazione di umanità vera che vogliamo offrire ai piccoli che sono con noi.

Abbiamo ricevuto doni straordinari. La globalizzazione ci ha finalmente fatto scoprire che, a suo modo, il mondo è come un villaggio dove abbiamo, chi più e chi meno, gli stessi problemi. Il Papa ha gridato che non si escludano dai vaccini i poveri della Terra. I cambiamenti politici fanno tornare alla ribalta la questione di una società più equa e sostenibile. L’autodifesa dei gruppi che tendono a chiudersi in se stessi fa scoprire le nostre fragilità. Non sprechiamo l’indignazione diffusa di rifiuto della violenza e l’apprezzamento per la solidarietà. Se molti sono i bisogni, la nostra Caritas diocesana mi attesta che la gente si è fatta in questi mesi più generosa, anche se le necessità si sono moltiplicate all’inverosimile. È un cambiamento culturale da non sottovalutare. La Chiesa ha il dovere di questa profezia.

Il nuovo tocca a noi costruirlo. È tempo propizio per dare spazio al Vangelo, che privilegia l’umiltà alla potenza, la semplicità dei rapporti, la considerazione per chi non ha niente, se non il tesoro prezioso di essere persona umana. Fanno perfino notizia i pochi soldi lasciati al bottegaio consueto per regalare qualcosa da mangiare a chi non ha i soldi per acquistarla. La fame e la miseria di due terzi del mondo si sono affacciati nelle nostre case pur piccole, ma riscaldate, magari povere, ma capaci di far festa, perché, in qualche modo, Dio si è fatto più vicino sia a chi ha capacità religiose di esprimersi, come a chi magari è scontroso per difendersi laicamente dagli accaparramenti e dal tentativo di altri di trovare nuovi adepti.

Ora serve l’inventiva della carità, che non è dare agli altri quello che non ti serve più, ma magari mettere in gioco gli altisonanti titoli accademici dei tuoi figli e tuoi nipoti per immaginare un mondo diverso, dove il gender non si interessa tanto all’orientamento dei singoli, ma difende l’identità umana che, come già Aristotele diceva, è un animale sociale (politikòn zôon), cioè, per sua natura solidale.

Il Papa sudamericano viene a ridirci ancora che non puoi essere indifferente di fronte alla sofferenza degli altri. È stata singolare, in questi mesi, la commozione di tutti di fronte ai vecchi intubati con quell’ossigeno che non riesce a muovere più i polmoni del prossimo. Ci eravamo confinati in una casta di privilegiati non aperta ad altri uomini come noi, donne e bambini appena partoriti che, attraversando il mare nostrum, provavano a sopravvivere.

I buoni propositi

Riuscirà questa Chiesa italiana a trovare una voce forte e coesa per rendere un servizio necessario alla gente del nostro tempo, per ridare davvero il coraggio di costruire o ricostruire una civiltà cristiana di cui qualche lume i nostri nonni ci hanno dato l’esempio?

Non è una questione di partito. Ditemi voi: la solidarietà non era forse ideale condiviso da tutti coloro che sottoscrissero il patto costituzionale? Bianchi, azzurri, rossi, neri. Lo firmarono tutti e, a loro modo, ci regalarono una bicicletta, insegnandoci che se vuoi andare avanti, bisogna pedalare. Cercarono di dare, nei giorni, nei mesi e negli anni, il loro specifico contributo, la loro visione della realtà, che, se varia, è più ricca e più bella come un prisma che, se ha molte facce, è capace di scandire la luce, di moltiplicare i colori a condizione di non infrangere l’unità e il rispetto vicendevole.

Questo Natale potrebbe essere occasione propizia, se tu vuoi, se accetti di fronte al puer natus est nobis di rimettere in discussione i luoghi comuni. Ogni passo avanti, non importa fatto da chi, è una conquista per tutti.

Dillo ai giovani di casa tua, che da loro ci aspettiamo profezia, impegno per gli ideali, speranza di riuscire a sconfiggere i mali della nostra civiltà occidentale, nella certezza che la fede in Gesù, espressa nei più vari modi che il mondo può conoscere, resta ancora la luce disponibile che Dio stanotte, per bontà sua, ci dona ancora.

Siamo pellegrini nel tempo per imparare ad uscire dal segmento poco affascinante che fin qui ci ha portato.

A Maria, la Donna del rischio per la salvezza di tutti, a Giuseppe, l’uomo affidabile e giusto, chiediamo di farci spazio in quella piccola grotta dove Gesù è nato nel freddo, sostenuto dalla Creazione, dal bue e dall’asinello, simboli della vita in funzione dell’uomo, di un ideale presepio che ha ancora la capacità di farci diventare uomini veri”.


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