Due Piero per il mio blog
di Pierantonio Pardi - lunedì 19 febbraio 2024 ore 08:00
Sparagli Piero, sparagli ora e dopo un poco sparagli ancora, finché non lo vedrai esangue cadere in terra a coprire il suo sangue. Così cantava De André ne “La guerra di Piero”. E adesso mi direte: “Che c’entra questa canzone con il tuo blog?” Una qualche analogia c’è anche questa volta, perché i due libri che andrò a presentare sono stati scritti da due Piero: il primo è Piero Nissim (Tredici mesi è il titolo, del suo libro), il secondo è Piero Panattoni (che ha scritto Storie della valle del Serchio ), poi c’è un terzo Piero che sarei io che scrivo (in realtà mi chiamo Pierantonio, ma da sempre tutti mi chiamano Piero). Quindi … un tris di Piero. Beh, mi direte: “Tutto qui?”. No, in realtà, al di là della corrispondenza dei nomi, ci sono altre analogie tra questi due libri e la canzone di De André. Infatti i libri dei due Piero raccontano vicende e storie che hanno come cornice il fascismo e la guerra, ma con alcune differenze. Nei racconti di Panattoni che hanno come sfondo il Serchio e la sua vallata, si incontrano persone vere e personaggi di pura fantasia, in un tempo che va dagli anni del fascismo all’immediato dopoguerra, in quelli di Nissim si scoprono storie poco note della gente ebraica nella città di Pisa e nel paese di Calci: le persecuzioni, gli omicidi (la strage di Pardo Roques, il Parnas) e gli aiuti clandestini forniti dalla gente.
Come sempre, nel presentare gli autori, procedo per ordine alfabetico.
PIERO NISSIM
Tredici mesi
Iniziamo quindi a parlare del libro di Nissim, riportando per intero la presentazione, ovvero “Le miniature di Piero” scritta da Gad Lerner.
“ Ci sono cose che possiamo sussurrarci solo da ebreo a ebreo, perché dette da un goy – a meno che si tratti di un amico intimo – suonerebbero equivoche.
Si tratta, in particolare, di considerazioni sulla facile riconoscibilità dell’aspetto fisico e sui tratti caratteriali derivanti da un’impronta familiare che inevitabilmente riaffiora, spesse volte a dispetto degli sforzi di emancipazione e laicizzazione in cui ci siamo profusi.
Lasciatemi dire allora che Piero Nissim – che su Wikipedia viene definito, tra l’altro, con il meritorio titolo di burattinaio, essendo in effetti quella forma di arte popolare uno dei suoi talenti – da sempre mi appare come un ebreo in miniatura. Quasi che nella sua stessa fisionomia potessimo riconoscere, inconfondibile, la raffigurazione di uno dei suoi personaggi. Un autoritratto.
L’ironia della sorte vuole che oggi venga spesso definito con ostilità e minacciosamente “burattinaio” – attribuendogli una malefica quanto ingiustificata aspirazione dominatrice – pure il finanziere ebreo statunitense di origine ungherese George Soros. Che a mio parere resta una singolare figura di benemerito, ma che certamente è l’opposto di Piero Nissim. L’antisemitismo è un malanimo capace di accomunare nel disprezzo personalità diversissime tra loro.
Dire di Piero Nissim che si tratta di un ebreo in miniatura, richiamando il suo aspetto minuto, il copricapo levantino, l’abbigliamento spesso volutamente all’antica e anche l’estrema concisione che caratterizza quasi sempre le sue creazioni poetiche, musicali e memorialistiche, non significa affatto minimizzarne l’opera. Anzi.
Come testimonia anche questa sua raccolta di scritti brevi e godibilissimi, significa al contrario valorizzare l’istantanea profondità dei suoi ritratti.
A caratterizzare l’ormai prolungata e coerente esperienza artistica di Nissim, spicca il dato della pisanità. Un legame, quello con la città in cui vive, per nulla inficiato dall’essere nato nella rivale Lucca, perché Piero Nissim non ha nulla del provinciale e gli è estraneo qualsivoglia retaggio campanilistico. La sua pisanità, difatti, si nutre di più appartenenze fra loro intrecciate: le tradizioni della comunità ebraica, il Sessantotto, Lotta Continua, la rivisitazione del folklore toscano, la poesia vernacolare.
Tutti ingredienti che fanno di Pisa la meravigliosa fucina culturale che tutti amiamo. E di cui anche questa raccolta di tredici racconti, tanti quanti sono i mesi del calendario ebraico (che a complicare le cose, possono essere anche dodici) resterà preziosa testimonianza.
Sì, perché Piero Nissim è piccolo uomo di grande tenacia, capace di far tesoro di un’altra delle sue caratteristiche, la mitezza, per trarne insegnamenti storici e morali che ci restano preziosi. “
Ed ecco alcuni frammenti dall’ Introduzione ovvero “Chi salva una vita salva il mondo intero” scritta da Piero Nissim
“ (…) Leggerete qui (in questi racconti, ndr) come le sorelle Millul e i loro genitori furono salvati dai nazisti da Francesco Bertolini, un calcesano che rischiò la vita per loro (…)
E chissà che un giorno, forse anche grazie a questa storia che per la prima volta di lui pubblicamente parla, non ne vengano riconosciuti ufficialmente i meriti e un albero a suo nome, a imperituro ricordo e gratitudine, non sia piantato nel Giardino dei Giusti presso lo Yad Vashem di Gerusalemme.
Dopo aver raccolto e trascritto questa storia inedita nelle pagine che seguono, altre ricerche e testimonianze mi hanno poi appassionato tanto da riunirle tutte quante in questo libriccino. Troverete un tassello in più sulla vicende di Pardo Roques, ucciso dai tedeschi nella sua abitazione di Pisa il 1° agosto 1944; il rabbino Augusto Hasdà, cancellato a Pisa dall’ Albo degli avvocati ancora prima delle leggi del 1938; Quinto e Alvaro Cai, antifascisti a Calci; il partigiano Piero Elter, a cui l’ANPI ha intitolato la propria sezione calcesana. Poi ancora la storia di salvezza – e un po’ d’amore – di Gina ed Enzo, rifugiati a Compignano di Massarosa; quella della signora polacca, scampata ad Auschwitz, che aveva aperto una latteria vicino alla Sapienza di Pisa. Non poteva infine mancare la storia di Guido Cava, decano – e già presidente – della Comunità Ebraica di Pisa.
Infine, uscendo dalla Toscana, tre storie: quella di Gianni Rodari, che fu maestro – educatore di alcuni bambini ebrei tedeschi rifugiati con le famiglie sul Lago Maggiore, quella di un giovane attore ebreo (non rivelo qui il nome, lo leggerete a fine testo … o lo scoprirete prima?) , che lavorò sotto falsi nomi in vari teatri italiani durante la guerra, le vicende poco note di Alberto Moravia ed Elsa Morante, ricercati a Roma dai nazisti e salvati dai fratelli Carlo Ludovico e Anton Giulio Bragaglia, entrambi decisamente fascisti.”
Tredici storie, dunque come i mesi del calendario ebraico. Storie documentate attraverso le testimonianze dei protagonisti, che quindi si presentano come piccoli inserti storici; prima tra tutte, quella del signor Francesco Bertolini di Calci che viene così presentato:
Francesco Bertolini, per tutti Cecco, in quell’estate del 1944 a Montemagno aveva 35 anni, una moglie – Dora – e un figlio piccolo di 7 anni, Evio. Di lavoro faceva il barrocciaio (…) andava spesso anche alla stazione di Calci a portare sacchi di farina e a ritirare il grano da macinare. Sì, Calci, che allora era terra di molini e si adagiava ai piedi del Monte Pisano in quella che veniva chiamata la Val Graziosa, aveva una stazione ferroviaria che la collegava a Navacchio e quindi all’importante arteria Pisa – Firenze e da lì al resto d’Italia.
Si imparano molte cose leggendo queste storie; per esempio che a Calci, in quegli anni c’erano oltre sessantamila sfollati tra pisani e livornesi.
Ma torniamo alla storia: Dora, la moglie di Cecco, mandò il figlio Evio dal calzolaio per aggiustare un paio di scarpe e gli raccomanda di non prendere la strada principale: Evio, durante il tragitto vede tre soldati tedeschi e, lasciati gli scarponi, corre a perdifiato verso casa per dare l’allarme, ma i tedeschi erano già lì e comunque non interessati alle persone, ma a requisire, dopo averle smitragliate, una trentina di galline morte che ordinarono di spellare rapidamente alle donne presenti in cucina. Poi se ne andarono, dicendo che sarebbero tornati il giorno dopo e così Cecco, all’imbrunire si mosse dalla casa di Omberardi:
(…) in testa c’era Cecco, che era grande e grosso e che si portava praticamente in spalla, uno di qua e uno di là, i due anziani Millul che avevano problemi a camminare.
E fu così che Cecco, nascondendo tutti in una grotta naturale, protetta da una roccia a forma cava, salvò quegli sfollati.
E ancora, la storia di Bruno Pochini, figlio di Emilia Del Francia, che in quel periodo era a servizio in casa di Pardo Roques.
All’epoca avevo 8 anni e tutti i giorni, tornando da scuola, andavo a casa di Pardo dalla mia mamma per poi rientrare insieme a lei a casa nostra. Quel giorno, il 1° agosto del ’43, andai come sempre dopo la scuola a casa di Pardo in via Sant’Andrea. La mamma, quando mi vide, mi disse sorridendo: Bruno, per favore vai a prendere un litro di latte, che qui è finito, poi torniamo a casa insieme.
E fu quel litro di latte a salvarlo, perché al suo ritorno non poté avvicinarsi alla casa; seppe dopo che dodici persone, tra cui sua madre, vi erano state assassinate.
E infine il giovane Gianni Rodari che, nel 1938, divenne precettore presso una famiglia ebraica tedesca e che così scrive di sè e di quel periodo:
Dovevo essere un pessimo maestro, mal preparato al suo lavoro, e avevo in mente di tutto, dalla linguistica indo – europea al marxismo, avevo in mente tutto fuorché la scuola. Forse, però, non sono stato un maestro noioso.
E sarà in quegli anni che capisce di essere in grado di inventare e raccontare storie, intrattenendo i propri alunni con stravaganti racconti a cui contribuivano i bambini stessi.
E ancora la storia di Alberto Moravia ed Elsa Morante salvati da due fratelli fascisti, Carlo Ludovico e Anton Giulio Bragaglia e quella del giovane attore, di origini ebraiche, che, per lavorare e sostituire un attore nella “Dodicesima notte” di Shakespeare, fu scritturato sotto falso nome come Puccio Gamma e da lì ogni volta a cambiar nome, Alberto Benini, Arnaldo Galli, ma fu con “La brava gente” di Irwin Shaw, messo in scena al teatro Eliseo di Roma nel dicembre 1944 che il giovane attore tornò a calcare il palcoscenico con il suo vero nome: Arnoldo Foà.
Chiude il libro un album fotografico con 20 foto.
L’autore
Piero Nissim è un musicista, burattinaio e poeta italiano, inizia la sua carriera artistica a metà degli anni 1960. In quel periodo si è interessato di musica popolare e ha fatto parte del Canzoniere Pisano e del Nuovo Canzoniere Italiano (fino al 1970).
Scrive musica per i suoi spettacoli teatrali e fa concerti dal vivo con un repertorio di canti ebraici in cui ripropone le musiche che, ascoltate fin dall’infanzia, hanno fatto da substrato alla sua formazione artistica e musicale.
Canti yiddish del repertorio ashkenazita, canti sefarditi, canti ebraici e della Memoria in un percorso culturale e musicale sulla grande tradizione degli ebrei d’Europa.
Nel 2012 ha vinto il Premio De Andrè/Poesia, nel 2014 ha vinto il Premio Nazionale “Paolo Borsellino” (sezione Cultura). Nello stesso anno il Premio della Critica al Concorso Nazionale “Giovanna Daffini”.
Altri suoi libri: Sonetti ebraici, Per un paese civile, Ciao Pisa, Ciao Caio, 100 scambi di coppia.
PIERO PANATTONI
Storie della valle del Serchio
Inizierò a parlare di questo libro, citando la quarta di copertina:
“ Persone vere e personaggi di fantasia s’incontrano sulle rive di un fiume dimenticato. In precario equilibrio tra amore e follia, gioia e dolore, salute e malattia, vita e morte. Un’epopea conosciuta di prima mano e narrata per racconti da uno che da quelle parti è nato e cresciuto”
Si respira un’aria strana leggendo queste diciannove storie, un’atmosfera da realismo magico … alla Marquez, evocata pagina dopo pagina da un’alternanza di personaggi reali e inventati, in una narrazione avvincente che, grazie ad un meccanismo narrativo a matrioska, si trovano, si perdono e si ritrovano all’interno dei singoli racconti.
Incontreremo così Giulio Cricicchi, detto Accio, emigrato in Provenza a causa del fascismo che ritorna dopo anni al suo paese, passeggiando lungo le rive del Serchio, tra ricordi e confessioni e Ferdinando Gaggini, il suonatore di Ocarina che viene così presentato dall’autore:
Ferdinando Gaggini scendeva a piedi da un paese semi abbandonato, nella parte alta della Garfagnana. Diceva che da lui il giorno cominciava alle dieci di mattina, perché, prima, la luce se la mangiavano i monti
E Tommaso Perego, il lanternista:
Tommaso Perego, piemontese di nascita, aveva tralignato da una famiglia di avvocati e faceva di mestiere il proiezionista itinerante di lanterna magica.
E qui, devo inserire una breve digressione e spiegare cos’erano queste lanterne magiche, antesignane del cinema (il primo film dei fratelli Lumière “Les ouvriers de l’usine” è del 1895):
La lanterna magica è la diretta antenata del moderno proiettore cinematografico. Si tratta di un apparecchio dotato di un sistema ottico e di una fonte di luce grazie ai quali ingrandisce e proietta su uno schermo bianco o su una parete immagini raffigurate su vetro. Fu inventata nel XVII secolo dall’astronome e matematico olandese Christian Huygens.
Insomma questo Ferdinando conosce un giorno Tommaso, il lanternista appunto e gli propone di fargli da colonna sonora e infine conosce Maria e, dopo un breve corteggiamento, la sposa.
Dicevo prima del procedimento a matrioska; infatti, nel racconto successivo, ecco che troviamo proprio Tommaso Perego che girovagava per i paesi con la sua lanterna magica; nei suoi spettacoli l’epico, il fantastico e il verosimile si mescolano insieme. Un giorno conosce Regina, sposata, fedele e malata con cui intreccerà un rapporto platonico e infine l’incontro più sorprendente alla stazione, in attesa del treno dove Tommaso viene colpito dall’occhio di vetro di Ada Capecchi che si guadagna da vivere facendo la guardia di notte ai bagagli di chi passa in stazione e così si rivolge ad una giovane donna :
Quando sei entrata nella stanza dormicchiavo e mi sono svegliata al rumore dei tuoi stivaletti, ma tu, come gli altri pensavi che fossi sveglia, eh già, ci si può sbagliare su uno sguardo normale, ma non sul lume fisso del mio occhio di vetro.
E così, grazie a quest’occhio che aveva perso a venticinque anni nel saltare un muro sbattendo la faccia su un ferro aguzzo, è diventata l’implacabile guardiana perché i ladri, ingannati dalla luminosità del suo occhio, credono che sia sveglia e desistono.
E ancora Leonardo Gremigni, ragazzo sveglio, gran seduttore, venditore di bottoni che un giorno, a Volterra, incontra una bambina di dieci anni a cui regala un fiocco e dopo molti anni, la incontra di nuovo ormai ragazza matura; lei si chiama Norma ed è da sempre innamorata di lui , ed ecco come viene raccontato il loro incontro:
“ Buongiorno, signorina, ma noi ci conosciamo …”
“ Penso proprio di sì … Sei Nardo Gremigni, il venditore di bottoni … come va?”
“ Bene e tu?”
“ Non mi riconosci, eh? Eppure venti anni fa mi hai fatto, con le tue mani, dei fiocchi per i capelli.”
“ Hai i capelli lisci ora e … sei cresciuta.”
“ Certo, ho trent’anni e ho già archiviato due mariti.”
“ Hai figli?”
“ No, non mi vengono, non credo di esserne capace … ma tu non ti sei ancora stancato di girare il mondo a vendere bottoni?”
“ A dire la verità, sì, ma non so fare altro … perché mi chiami Nardo?”
“ Perché è un nome che mi piace accanto al mio, Nardo e Norma … ma sei sicuro che non sai fare altro, forse non ci hai provato, guarda me, facevo la commessa e ora sarei un’infermiera.”
E il finale di questa storia che sconfina nel fiabesco, anche se non viene rivelato, ce lo fanno intuire queste parole:
A Volterra l’aria profuma di erbe aromatiche, soppiantate solo in centro dalle polveri di alabastro, le balze sulle colline intorno ti ricordano che la vita è fatta a dirupi e piena di pericoli, ma c’è di bello che a pranzo si mangia bene dovunque e i pomeriggi sono brevi se si ha qualcuno con cui parlare d’amore.
Sono storie, queste, sospese tra fantasia, finzione, realtà che raccontano frammenti di vita di personaggi che hanno vissuto lungo la valle del Serchio, in un arco temporale che va dalla fine del 1800 al 1900.
Concludo questa breve rassegna di racconti con l’ultimo, particolarmente intenso e drammatico, dal titolo “La donna dei macelli” che vede come protagonista Doretta Guggini che lavora al mattatoio e così si presenta:
Si fa presto a dire come funziona, amica mia, sabato pomeriggio mi sono comprata un paio di mutandine nuove e ieri sera, appena finito il lavoro, ci ho rinchiuso dentro il mio quindicesimo Mario Rossi (nome che per antonomasia lei sceglie per tutti i suoi amanti, ndr) (…) Non sono bella, ma piaccio agli uomini, come è vero che sono bruna di capelli e d’incarnato. Se, in estate, mi capita di spalancare le ascelle pelose davanti a un maschietto, lui non mi si leva più d’attorno come una bestiolina in calore. Non capisco cosa ci trovino in quel cespuglio sudaticcio e puzzolente, ma è una verità e tanto vale conoscerla.
Poi conoscerà Ettore il rosso (protagonista del racconto precedente), impotente e malato e con lui sperimenterà un nuovo tipo di rapporto che si può così sintetizzare:
Nonostante il buco nelle gola, Ettore parlava tranquillamente e allora parlavano tutto il pomeriggio, parlarono come le persone che hanno cose da dire e sanno come dirle, lasciando spazio all’altro tutte le volte che il cuore preme e sembra scoppiare dall’urgenza di una confessione. A sera, fra di loro ogni cosa era chiara in ogni sua sfumatura: poco tempo per vedersi e poca compassione sociale. Solitudine, isolamento, niente sesso e niente futuro, ma di tutte le ragioni che gli uomini e le donne, dall’inizio dei tempi, avevano cercato e trovato per amarsi, non ne mancava neppure una.
Accanto a questa che è quasi una storia di catarsi e redenzione , tante altre in una fantasmagoria di personaggi e situazioni narrati con riversi registri linguistici, ma accomunati tutti da una timbrica emotiva coinvolgente ed intensa.
Cito dal web una recensione che ho trovato interessante :n
A” Un fiume ingiustamente dimenticato. Qui, in un tempo che va dagli anni del fascismo all’immediato dopoguerra, persone vere e personaggi di pura fantasia si cercano, si sfiorano, s’incontrano, si amano, nel mezzo di una lotta quotidiana per la dignità e, ove possibile, per la felicità.
Qualcuno ce la fa, qualcuno no, ma tutti sperimentano il precario equilibrio tra amore e follia, gioia e dolore, salute e malattia, vita e morte.
La prima scommessa di questo libro è riuscire a far rivivere dei luoghi senza lasciarsi trasportare dal colore locale e farne scaturire i caratteri non da una descrizione esterna, ma dall’insieme dei rapporti sociali che vi si svolgono all’interno.
Il tratto distintivo che ne scaturisce, pur non dichiarato, è una civiltà dei comportamenti che ha come suoi pilastri di base l’antifascismo, il senso di giustizia, la scelta di una appartenenza popolare, l’ironia, l’accoglienza.
La seconda scommessa, la più difficile, è descrivere e dar conto di vite semplici e ingenue senza andare a cercare le macchiette di paese, i tipi strambi, i buffi da osteria. Cercare l’epica e l’eroismo in persone provenienti da strati popolari: fornai, casalinghe, contadini, cercare in loro la capacità di esprimere sentimenti alti, esemplari, se possibile universali.
Evitando le secche del bozzettismo, cioè di uno sguardo accondiscendente dall’alto verso il basso, che ghettizza i personaggi in un luogo , in una abitudine, in una situazione e concede loro solo il guizzo della vivacità e della simpatia, l’autore ha dato a tutte le sue creature una possibilità di evoluzione e di riscatto.
Osserva giustamente Luca Doni:
Un libro basato sulla memoria, certo, ma non sulla paralizzante nostalgia; come ha scritto Luca Doni: “Un popolo, un tempo, forse passato che odora di voglia di presente...”Storie della valle del Serchio” non è una fotografia in bianco e nero di un universo scomparso, è una radice che può dare ancora molti frutti, un seme letterario per una prossima fioritura”.
E pensare che, all’inizio, Piero Panattoni, come confessa nell’introduzione, aveva pensato di ambientare queste storie in America con il titolo “Storie di Calumet river”, dal nome del fiume che scorre a sud della grande metropoli americana.
E’ solo, grazie al consiglio di Carlos Ansò, il suo editor che, invece del fiume Calumet troviamo il Serchio. Chi ne vorrà sapere di più, potrà leggersi l’introduzione.
Io concludo, dando la parola direttamente a Piero:
Scrivere un libro intitolato “Storie della valle del Serchio” per uno che da quelle parti è nato e cresciuto rappresenta di norma il punto di partenza di una attività letteraria e invece qui si tratta di un punto di arrivo, o meglio, di un luogo di approdo, che sia temporaneo o definitivo non importa.
L’autore:
Piero Panattoni ha pubblicato con le edizioni ETS nel 2013 e nel 2015 i romanzi “Chicago 1958” e “Due donne” “Apparizioni –poesie”, “Dialogo segreto di Bartolomeo Allattati”
Un tempo insegnante di liceo, poi attore di teatro e trovarobe, oggi colleziona nipoti e quadri del pittore pisano Marco Menghelli
Pierantonio Pardi