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Il musicista oggi, un dialogo con Gennaro Spinelli

di - giovedì 04 febbraio 2021 ore 07:30

Gennaro Spinelli

Il mestiere del musicista, oggi, quando può lavorare in teatro, rarissime occasioni, inizia nel foyer. Non più sul palco. Non più nei camerini. Inizia seduto su una sedia di fronte ad un tampone antigenico, cosiddetto rapido. Proprio vicino alla porta, nel caso qualcosa andasse storto. La testa posata a un muro, gli occhi chiusi, un pizzico dentro alle narici, un lieve fastidio, le lacrime a bagnare gli occhi. Non che le lacrime non siano connaturate al mestiere del musicista e dell’artista in generale. Il musicista ha sempre pianto. Solo che prima piangeva per l’emozione, per l’esserci, per il compimento di quel rito che è il raccontare storie in musica, l’indossare i panni e i pentagrammi degli altri. Piangeva e rideva sul palco, in corso d’opera, a volte nello stesso tempo, quasi sempre in silenzio, senza farsi vedere. Le lacrime di oggi sono invece il certificato d’idoneità al lavoro, al potersi intrattenere su un palco in compagnia dei suoi simili. Il risultato “negativo” che diventa positività di un’intera giornata e di un intero mese di lavoro precluso. Poi verranno altre lacrime, forse. Intanto, solo per essere lì, il musicista ha già dovuto piangere, almeno un poco, per quel poco di dolore che lascia il tempo dedicato al tampone.

Poi viene il palco, l’organizzazione e l’allestimento dello spazio scenico. Il leggio da montare, se serve. Lo strumento da risvegliare e accordare. Le dita da sciogliere. Il microfono da provare. Forse visiterà anche il camerino ma non è più un’operazione indispensabile. La platea, oggi, è il camerino più ampio che possa esserci per un musicista. La platea o un palchetto, a portata di palcoscenico. Tanto, il pubblico, non sarà presente. La platea resterà deserta. L’esibizione andrà in streaming, che sia in diretta o in differita. Potrà cambiarsi con agio, dato il presupposto che il musicista quasi mai si sottopone a quel trucco dell’attore che potrebbe sporcare il velluto rosso, lì dove un tempo sedeva una coppia attenta, due fidanzati abbracciati, un bambino curioso. Lì dove riposano le storie degli spettatori, quelle storie raramente narrate. Fantasmi e vera vita dello spazio teatro: la sua essenza civile, la sua natura sociale.

Il soundcheck. L’emozione smorzata dal racconto di sé, tra colleghi di strumento e tecnici, in una compagnia che non si ritrova ormai da troppo tempo. Infine il concerto cercando di tenere l’attenzione dello sguardo in una videocamera, immaginando gli applausi, ricordando al cuore che quel silenzio che avverte attorno a sé, quell’assenza di calore e di umanità, non è il giudizio negativo di un pubblico severo o sonnolento, ma una legge a tutela della sua sicurezza e di quella dei suoi simili.

Di mestiere faccio (anche) il musicista e in questi ultimi giorni ho avuto anch’io l’occasione di tornare al lavoro su un palcoscenico*. Testando tutto quanto scritto, passo dopo passo. Aggiungo che posso dirmi fortunato per aver potuto montare e strapazzare su un vero palcoscenico il mio strumento musicale, comunque e nonostante tutto, lacrime comprese. Non è del mio suonare, tuttavia, che voglio raccontarvi. Ma dell’essere musicista e artista di un collega ed amico conosciuto poco più di un anno fa, in occasione della prima esibizione di “Romanò Simchà”, la festa ebraica rom pensata e portata in scena da Enrico Fink, Alexian Santino Spinelli, l’Orchestra Multietnica di Arezzo e l’Alexian Group. Voglio raccontarvi del violinista Gennaro Spinelli, un giovane musicista - ma non solo - abruzzese che ha trasformato in arte e passione civile le quattro corde del suo violino e una tradizione culturale e musicale familiare che attraversa i secoli. Un racconto che farò attraverso le sue parole per non perderne l’autenticità e per non dimenticarmi (e non farvi dimenticare) di ciò che l’esperienza pandemica ha sottratto a tutti noi in incontri, esperienza e meraviglia.

Gennaro, quando ti sei avvicinato al violino?

Ho cominciato a suonare all’età di 6 anni. Quando hai la musica dentro casa - nel mio caso mio padre - non si può non innamorarsi della musica stessa. Scelsi il violino dopo aver provato la chitarra e il piano, vidi in quelle 4 corde qualcosa con cui esprimermi a modo “mio”.

Come hai detto vieni da una storia familiare e culturale legata alla musica, al concertismo e al virtuosismo. Come ha influito, questo, sulla tua esperienza musicale?

Nel modo più assoluto. Per me suonare non è solo espressione musicale ma umana e un vero e proprio stile di vita. Il virtuosismo che porto sul palco ha radici molto profonde, da quando fin da piccolo cercavo di riprodurre il suono degli uccelli, di ciò che mi circondava, lo strumento diventa un amico, un confidente un amante. Tutto è musica, comunicare è musica, vivere è musica.

I tuoi impegni concertistici non ti hanno impedito di dedicarti anche ad altri studi, ad esempio l’Università.

Assolutamente, anzi lo studio della musica ti dà una struttura tale da farti capire che i risultati si ottengono non solo col talento ma con ma metodicità. La mattina un musicista si sveglia e fa le scale per scaldare le mani, lo studio è questo sapere che per ottenere dei risultati bisogna applicarsi in un certo modo ed ho potuto constatarlo anche nello sport. Credo di essere uno dei pochi violinisti di professione che hanno combattuto agonisticamente nel pugilato vincendo dei titoli. Tutto ciò con lo stesso metodo: costanza, dedizione e passione!

Questo anno difficile, da un punto di vista musicale e professionale, ti ha visto diventare Presidente dell’UCRI, l’Unione delle Comunità Romanès in Italia, e Ambasciatore di arte e cultura romanì nel mondo presso l’International Romanì Union. Qual è il tuo impegno su questi versanti?

La mia cultura è parte fondante di me, la vivo ogni momento di ogni giorno anche nella musica. Sono stato democraticamente eletto presidente della più grande organizzazione rom e sinti d'Italia, credo perché in me le persone vedono precisione e un’indomita voglia di risultati a migliorare la nostra etnia socialmente. Per me il riconoscimento dell’IRU come ambasciatore dell'arte e cultura romanì nel mondo - recentemente abbiamo ottenuto anche la collaborazione dell'ONU per il riconoscimento della minoranza romanì in Italia - sono piccoli passi per arrivare al vero obiettivo che è quello di abbattere la discriminazione, quella stessa discriminazione che anche io ho dovuto subire. Questa è la maggiore garanzia per farmi dire che non mi fermerò.

Vorrei concludere tornando alla musica. Nella mia esperienza di studi ho fatto una gran fatica ad avvicinarmi al mondo dell’improvvisazione. A trovare i giusti maestri in un campo esecutivo che esula dal pentagramma. Posso dire con certezza che il mio primo maestro è stato Enrico Fink ed avevo un diploma di Conservatorio in tasca ormai da molti anni. Tu che nasci improvvisatore e poi musicista classico, che riesci a far convivere sul tuo violino modalità e tonalità, quali problemi hai trovato? Cosa pensi che manchi all’educazione musicale in Italia ma non solo per affrontare senza pregiudizi questo capitolo della prassi musicale tanto appagante per il pubblico e per l’esecutore quanto complesso, istrionico, apparentemente privo di regole?

Per noi l'improvvisazione non è altro che espressione, diciamo la nostra. Improvvisare è dare la tua opinione, dare la tua visione. L'Improvvisazione è caratteriale e nel nostro caso mai strutturata, come fanno molti, noi non “studiamo” l'improvvisazione, noi studiamo per aumentare il livello tecnico per avere maggiori risorse da spendere nelle improvvisazioni.

La musica classica ha il limite della perfezione, ho frequentato il Conservatorio ed ho avuto imposti dei limiti. Un grande bagaglio tecnico e culturale ma con forti limiti musicali, come ad esempio i glissati che nella musica romanì sono parte integrante della sonorità e molte altre sfumature che se lasciate libere di esprimersi darebbero più realtà personale.

La musica classica è per me una passione ed un amore mai estinto ma la musica etnica, le improvvisazioni ed il virtuosismo di essere me stesso con un arco e 4 corde è impareggiabile.

Oggi alla musica manca il lato scenico che nessuno insegna, manca il lato organizzativo che nessuno spiega o dirige durante i tanti anni di studi, manca la percezione personale della musica, ad esempio se non ci fosse la classica cosa suoneresti? Naturalmente tutti abbiamo cominciato con quella ed è un ottimo mezzo tecnico ed uno dei generi più belli a mio avviso ma ognuno dovrebbe provare cose diverse per magari non solo crescere musicalmente ma anche per darsi un’opportunità diversa. Questa è la mia opinione. Siate liberi, siate musicali ma soprattutto siate felici quando suonate, nella musica si sente.

* Per chi ha voglia di approfondire: l’occasione principale d’esibizione pubblica a cui faccio riferimento, anche se senza pubblico in presenza, è legata al Giorno della Memoria 2021 promosso dalla Regione Toscana che ha visto, tra gli ospiti, anche l’Orchestra Multietnica di Arezzo e l’Alexian Group con il progetto “Romanò Simchà - festa ebraica rom”. Il video integrale della diretta che ha coinvolto tanti testimoni e 10.000 studenti toscani a scuola e a casa è visibile gratuitamente al seguente link: https://www.intoscana.it/it/articolo/giorno-memoria-evento-firenze/. Le foto, a cura di Officine della Cultura, oltre all’evento citato presso il Teatro della Compagnia di Firenze, raccontano gli altri due concerti legati al Giorno della Memoria 2021 presso il Teatro Excelsior di Reggello e il Teatro Verdi di Monte San Savino. Oltre all’Orchestra Multietnica di Arezzo ringrazio Gennaro Spinelli per la disponibilità e l’intero Alexian Group per quanto continuano a fare, non solo musicalmente, per quella cultura sociale e per quel pensiero che spero sarà l’eredità dei nostri figli.


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