Dentro il carcere degli orrori di Sednaya: «È un lotta contro il tempo per trovare i detenuti che potrebbero essere nascosti nelle celle segrete»
Attualità venerdì 09 ottobre 2020 ore 13:02
Segre: "Operaia-schiava nella fabbrica di armi"
Liliana Segre parla della prigionia e dell'orrore delle camere a gas. "Ridotta a numero". Toccante testimonianza nell'incontro a Rondine
AREZZO — Il viaggio verso il campo di concentramento diventa condiviso nel silenzio di Rondine e nella drammaticità della testimonianza che Liliana Segre offre come testimone morale di un’epopea storica intrisa di follia. Lo fa perché i giovani capiscano, sappiano, approfondiscano e maturino la coscienza degli uomini e delle donne che un giorno diventeranno.
Su quel treno insieme a Liliana Segre ci siamo tutti perché l’essenzialità delle parole porta dentro la sua storia. “Ci furono le preghiere e poi il silenzio delle ultime cose. Il silenzio toccante. Quando si sta per morire si cerca solo il silenzio. Silenzio solenne, indimenticabile. Dopo aver visto paesaggi diversi, arrivammo in quella stazione artificiale. Ci obbligarono a scendere a bastonate, senza capire il perché. Si scendeva dal treno e si intrecciavano le lingue dei popoli prigionieri. Stavo attaccata a mio padre. Divisero gli uomini dalle donne. Cercavo di fare dei sorrisi a mio padre. Ma poi ho capito che era quel momento: un momento di vita o di morte. Un tribunale nazista dove si veniva scelti per la vita o per la morte. Attorno a me, l'indifferenza e la rassegnazione. Avevo 13 anni e fui scelta con altre 30 ragazze italiane ebree di quel treno: tutte le altre entrarono nelle camere e gas. Da quel giorno non vidi mai più mio padre”. Parole taglienti come lame che aprono una finestra sull’orrore e la follia del nazismo.
Liliana Segre ha solo la vita tra le mani, ma è moltissimo di fronte alle camere a gas. “Io andavo dietro alle altre e varcai la soglia di quel cancello famoso. Una distesa di baracca, decine di donne rasate, scheletrite che portavano pietre. Eravamo delle dannate condannate a delle pene. Pensai di essere impazzita. Entrammo nella prima baracca così come eravamo arrivati e capimmo che dovevamo dimenticare il nostro nome. Eravamo un numero che mi venne tatuato sul braccio. Dovevamo impararlo in tedesco per obbedire al richiamo del comando tedesco. Spogliate, rasate, svestite, mentre passavano i soldati che sghignazzavano. Non ci lasciarono niente della nostra vita precedente. Vestite con divise a righe, zoccoli neri a piedi e fazzoletto in testa. In fondo la ciminiera che continuava a fare fumo. Il forno dove venivano bruciate le persone che non lavoravano”. Da qui, da questo momento iniziò la sua prigionia, la sua schiavitù.
Ma c’è un altro passaggio del racconto di Liliana Segre significativo, nella sua atrocità e riguarda le relazioni tra prigionieri. “Noi prigionieri non eravamo amici. Pian piano stavamo diventato ciò che i nostri aguzzino volevano. Egoisti, a volte disumani. Quel pezzo di coperta lo volevi anche tu, non c'era generosità ma sopravvivenza. Avevo paura di perdere ancora di più, dopo aver perso tutto. Diventai operaia-schiava nella fabbrica di armi. Alla sera, al rientro, dalle fiamme e dal fumo, capivamo se avremmo rivisto i nostri compagni di schiavitù. Non ero più donna. Senza seno, senza mestruazioni, spesso senza mutande. Quando a una donna si toglie l'umanità e la dignità allora bisogna estraniarsi per sopravvivere. Tutte sceglievamo la vita”.
La senatrice a vita ricorda poi la condanna di Janine che aveva due dita ricucite e non poteva più lavorare bene. Una testimonianza durissima, di quelle che scavano dentro, interpellano le coscienze. Liliana Segre consegna all’umanità il suo bagaglio di dolore ma al tempo stesso di speranza. Dolore e speranza che diventano di tutti.
Al termine della cerimonia, il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina ha consegnato alla senatrice a vita un riconoscimento, simbolo della gratitudine degli italiani.
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