Libia tra interventismo Usa e prudenza generale
di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi - venerdì 18 marzo 2016 ore 09:27
Il dibattito sull'intervento in Libia continua ad essere molto acceso, tra Stati pronti ad intervenire ed altri più prudenti. Caduta la speranza di un esecutivo di unità nazionale a guida Al Sarraj, per l'ostruzione del governo di salvezza di Tripoli, il ruolo che sarà chiamata a svolgere l'Italia sarà sicuramente di primo piano, sono molti i nostri interessi anche economici e troppo vicine le coste libiche per restare “indifferenti”.
Ecco perché dobbiamo saper leggere e bene le parole che il presidente egiziano Al Sisi ha rilasciato in queste ore dalle pagine di La Repubblica: “Se le istituzioni vengono distrutte, per ricostruirle occorre molto tempo e sforzi significativi. Questa è l'origine delle nostre grandi paure riguardo alla Libia: più tardi agiamo, più rischi si generano. Dobbiamo agire in fretta e difendere la stabilità di tutti i paesi che non sono ancora caduti nel caos, per questo ci vuole una strategia globale che non riguardi solo la Libia ma affronti i problemi presenti in tutta la regione. Problemi che poi possono trasformarsi in minacce alla sicurezza pure in Europa.”
Un messaggio al nostro paese ma sopratutto un monito alla strategia che vorrebbe mettere in campo il Pentagono: “è molto importante che ogni iniziativa italiana, europea o internazionale avvenga su richiesta libica e sotto il mandato delle Nazioni Unite e della Lega Araba”.
In questo quadro geopolitico è opportuno ricordare quello che accadde nel 1803 quando, uno squadrone navale della marina degli Stati Uniti, al comando del Commodoro Edward Preble, prese il largo da Boston alla volta di Malta. Era la prima volta che vascelli militari americani portavano la guerra lontano dalle coste atlantiche, nel cuore del Mediterraneo. La missione, imposta dal presidente Thomas Jefferson, prevedeva una “punizione” all'arroganza degli stati barbareschi.
Le ragioni del conflitto erano puramente economiche: l'America rifiutava di pagare il tributo per il passaggio delle merci ai locali pascià, come era uso fare. Per l'ex colonia il volume di affari con gli stati meridionali europei era andato incrementandosi negli anni, ma le navi mercantili battenti bandiera a stelle e strisce avevano perso la protezione britannica prima e poi quella francese, trovandosi inermi alle scorrerie dei pirati e con pesanti perdite negli investimenti. I nemici, in quel caso, non erano solo le navi della tirannica Londra ma anche quelle delle città di Algeri, Tripoli e Tunisi.
Le tre signorie barbaresche nei cui porti ormeggiavano le potenti flotte corsare che imperversavano per il "Mare Nostrum". La prima guerra tra i pirati musulmani e gli yankees protestanti proseguì a fasi alterne. Nel maggio del 1805 il conflitto ebbe un appendice sulla terra ferma con la conquista della città di Derna da parte di un manipolo di uomini del corpo dei marines, qualche centinaio di mercenari greci e alcune tribù della Cirenaica in rivolta contro il potere del pascià di Tripoli. Il piccolo e variegato esercito, compì una marcia epica attraversando il deserto del Sahara sino alle mura della città portuale libica.
Quella fortunata campagna terrestre condizionò l'esito del conflitto, convincendo le autorità di Tripoli ad accettare un repentino cessate il fuoco. Oggi Derna è sotto il controllo dell'esercito del Califfato e la Libia è nel caos di una guerra civile senza fine, con scenari in continua evoluzione, sollecitati da interferenze internazionali (USA, Francia e GB) e regionali: Turchia, Egitto, Qatar, Algeria, Niger e Marocco, ciascuno con i propri interessi, completano lo scacchiere.
La Libia in fondo è una invenzione geografica del colonialismo italiano, uno stato costituito da tre realtà molto, troppo, diverse e contrastanti per trovare un equilibrio duraturo: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan corrono su binari divergenti culturalmente, politicamente e anche militarmente. La nazione libica al momento non esiste più, per ricomporre la cartina smembrata di questo paese serve altro che una guerra barbaresca. Ci vuole prima di tutto una bandiera, quella dell'ONU. E poi tanta fortuna.
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Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi