Riflessioni sulle radici del “male” di Freud
di Adolfo Santoro - sabato 21 gennaio 2023 ore 09:00
Riflettere, in base ai pochi dati a disposizione ed alle testimonianze indirette, sulle radici culturali, transgenerazionali e genitoriali del “male” di Sigmund Freud mi porta, al momento, a queste considerazioni.
Il padre di Sigmund, Jacob, era un ebreo non ortodosso, che però non impedì ai figli l’ebraizzazione attraverso la lettura della Bibbia. La famiglia di Jacob era di lingua tedesca e si era spostata nella regione occidentale dell’Ucraina. Possiamo intuire in Jacob un’aspirazione ad occidentalizzarsi, tant’è che dalla Moravia (una regione boema dell’Impero asburgico) finì per spostarsi a Vienna, che con Parigi e Londra era la capitale della cultura europea. Questa aspirazione, vedremo, c’era anche in Sigimsund: ho parlato del fatto che da giovane adulto iniziò a firmarsi non come Sigismund, ma, alla tedesca, come Sigmund. L’intuizione ci porta a comprendere che questo era un tentativo di realizzare un sogno paterno verso una laicità, ma ne parleremo più avanti.
Abbiamo descritto la ripetizione dei nomi nell’albero generazionale: Jacob era il nome sia del padre (morto poco prima del matrimonio di Amalia), che del marito di Amalia. Il secondo nome di Sigismund era Schlomo, cioè Salomon, come quello del nonno paterno. Il primo fratello di Sigismund, minore di otto mesi, Julius, aveva lo stesso nome dello zio materno, morto poco prima del matrimonio di Jacob e Amalia. La sorella di Sigmund, minore di due anni, Anna, aveva lo stesso nome dell’ultima figlia di Sigmund. I nomi possono veicolare aspettative ed intenzioni che possono portare, all’interno dell’albero genealogico, a ripetizioni in concordanza o in opposizione. Il nome è la prima proprietà privata, è la parola verso cui ci giriamo quando la sentiamo nominare. Dietro il nome del marito, Jacob, e del secondo figlio, Julius, potevano nascondersi in Amalia due lutti non adeguatamente elaborati, entrambi avvenuti poco prima del matrimonio. L’ultima figlia di Freud, Anna, seguirà il padre fino alla fine legando la propria storia a quella del padre e divenendone la custode dell’ortodossia del pensiero psicoanalitica. Scrive Alejandro Jodorowsky in “Metagenealogia”: “… il nome proprio è carico di fantasmi narcisistici e di proiezioni genitoriali. Il bambino si abitua al suono con cui si attira costantemente la sua attenzione, come farebbe un animale domestico. Finisce per incorporarlo nella propria esistenza come se fosse qualcosa di fisico. Nella maggior parte dei casi, purtroppo, il nome proprio è un concentrato delle aspirazioni del tranello famigliare…”. Per Anne Ancelin Schützenberger, ideatrice della “psicogenealogia”, nomi e date sono gli elementi fondanti del proprio albero genealogico. Per Juliette Allais, in “La psychogénéalogie”, “Attribuire un nome al proprio figlio o alla propria figlia non è assolutamente un atto gratuito: questa scelta, cosciente o meno, è l’incrocio di tutta una serie di proiezioni e di affetti, di desideri inappagati, di aspirazioni inconfessate o al contrario di preferenze chiaramente espresse.”.
Ma, oltre a ciò, Amalia si trovò a sposare un uomo della generazione precedente, che aveva due figli della generazione di Amalia. Sigismund si trovò a crescere con il coetaneo John, che però era, a rigore, suo nipote: John era più grande di un anno e più forte e, nella competizione, Sigismund cercava di contrastarlo. Freud scrisse, ne “L’interpretazione dei sogni” del 1900, a proposito dei suoi ideali infantili, Annibale e il suo maresciallo Massena: “Forse lo sviluppo di questo ideale guerriero può essere fatto risalire a molto tempo prima, fino ai primi tre anni della mia infanzia, ed alle ambizioni che i miei rapporti, ora amichevoli ora ostili, con un bambino di età maggiore di me di un anno, potevano aver generato nel più debole di noi due… Eravamo stati inseparabili fino alla fine dei miei tre anni, ci eravamo amati e accapigliati a vicenda e, come ho già accennato, questa amicizia infantile ha determinato tutti i miei successivi sentimenti nei rapporti con le persone della mia età. Mio nipote John ha subìto da allora molte incarnazioni, che hanno fatto rivivere ora l’uno ora l’altro aspetto di un carattere che è rimasto indissolubilmente fissato nella mia memoria inconscia… Un intimo amico e un nemico aborrito sono sempre stati indispensabili alla mia vita emotiva, ed io sono sempre stato capace di crearli ex novo. Non di rado il mio ideale infantile è stato raggiunto così bene, che l’amico e il nemico si sono fusi in una stessa persona, ma naturalmente non allo stesso tempo, come accadeva nella mia prima infanzia.”. Questa drammatica e tragica confessione, in cui è già descritta implicitamente la coazione a ripetere le scene del passato, mi suscita tanta compassione per Sigmund: riusciva a comprendere con la testa il meccanismo del suo male, ma era privo di comprensione emotiva. Per me sarebbe stato semplice aiutarlo a liberarsi di questo ricordo ripetitivo inconscio. Scriverò, la prossima volta, dell’importanza di passare dalla rivalità alla fratellanza e dell’assenza e della presenza della generazione precedente in tutto ciò. Ma fin da ora mi chiedo: “Il sigaro e il cancro finirono per essere il suo amico-nemico? Il suo masochistico suicidio dilazionato?”.
Perdente era anche il padre di Sigismund, Jacob, che non riusciva a risolvere la povertà della propria famiglia, tanto da dover essere aiutato dalla famiglia della moglie; ma la povertà, come avviene in genere nei proletari, si accompagna alla coazione di generare un figlio all’anno.
Non conosciamo il contesto della concezione, né della gravidanza, né del parto, né dei primi mesi di Sigismund, sappiamo però che, quando aveva dieci mesi, la sua bambinaia boema, che Freud chiama “Nannie”, scomparve; il motivo della scomparsa, che non fu spiegato a Sigismund, era che fu sorpresa a rubare i giocattoli e il danaro che veniva dato a Sigmund; il fratellastro Philipp aveva insistito perché fosse arrestata e ciò avvenne: Nannie scontò una pena di dieci mesi. Quando Sigismund, in età di saper parlare, chiese conto a Philipp della scomparsa di Nannie, questi rispose “È stata messa dentro”; il bambino Sigismund equivocò e concluse che era stata rinchiusa in una cassa. Soltanto da adulto Sigmund comprese l’equivoco, quando in “Psicopatologia della vita quotidiana”, scritto a 45 anni, descrisse un sogno: si trovava in piedi, accanto ad una cassa, il cui coperchio era tenuto aperto da Philipp; Sigmund, in lacrime, domandava qualcosa a Philipp, ma le scene del sonno si accavallano e subentra la figura dell’esile Amalia; nella sua auto-analisi Freud concluse di aver temuto che Philipp potesse aver rinchiuso Amalia nella cassa come aveva fatto con Nannie. Il capitolo di “Psicopatologia della vita quotidiana” si conclude con “quando compii i tre anni, la convivenza col fratellastro ebbe fine.”.
Un altro evento traumatico fu la nascita del fratello Julius e poi la sua morte ad otto mesi di tubercolosi, quando Sigismund aveva diciannove mesi; in una lettera del 1897 all’amico Fliess Freud scrisse che la sua gelosia gli faceva augurare malanni al piccolo Julius e, quando questi morì, “ha lasciato in me il germe degli (auto)-rimproveri”.
Sempre nella stessa lettera a Fliess scrisse: “Posso solamente dire che, nel mio caso, mio padre non ha alcuna parte attiva, quantunque io riscontri delle analogie tra lui e me; la mia "iniziatrice" fu una donna brutta e vecchia ma astuta, la quale mi parlò molto di Dio e dell’Inferno, e mi diede un’alta opinione delle mie capacità; più tardi (tra i due e i due anni e mezzo di età) si risvegliò in me la libido verso matrem; l’occasione deve essere stata un viaggio che feci con lei da Lipsia a Vienna, durante il quale dormimmo assieme e in cui io ebbi certamente l’opportunità di vederla nudam.”.
Ce n’è abbastanza per allargare la riflessione sui fatti descritti e per includere i comportamenti dei genitori (e degli altri adulti) verso i figli e le possibili conseguenze. Ma sarà la disamina della prossima settimana.
(continua)
Adolfo Santoro