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RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Il montatore di schermi

di Marco Celati - martedì 18 agosto 2015 ore 20:49

Questo racconto èdi un secolo fa. Fu pubblicato in parte su Il Tirreno. Lo ripropongo in versione integrale. Descrive un altro me e un altro tempo.

IL MONTATORE DI SCHERMI

Si fece largo a fatica tra le foglie e, arrampicandosi lungo l'impalcatura, emerse sopra la cima degli alberi della Villa dov'era il "Cinema sotto le Stelle", come Tarzan, l'uomo scimmia. "Cita, Jane dove siete?".

Nel pieno mattino d'estate scorgeva dall'alto l'argine e l'affluente in secco che, incredibile a dirsi a vederlo ridotto così, d'inverno, gonfio di pioggia, metteva paura.

Al di là della siepe, sbirciava le panchine degli innamorati, disturbato da quell'apparente felicità, come un dio silvano, invidioso degli amanti, dell'indifferenza dei loro amplessi. "Amore, gioventù, liete parole,/ cosa splende su voi e vi dissecca?/ Resta un odore come merda secca/ lungo le siepi cariche di sole". Considerava le donne il più affascinante mistero dell'universo e da tempo nutriva per il genere femminile la stessa, identica fiducia che riponeva in quello maschile: nessuna. I rapporti tra uomini e donne essendo tenuti insieme da legami a lui difficilmente comprensibili, lasciava che fosse la sorte, il destino a risolvere queste cose. Il destino, pensava, non meno dell'arbitrio degli uomini è crudele, ma perlomeno casuale.

Come quella volta che "non invecchi mai" gli disse un'amica in vena di lusinghe. La risposta fu "ho fatto un patto con la mia infelicità" che si protrasse infatti anche in quell'occasione. Gli insuccessi degli uomini sono costellati di frasi azzeccate.

Più in là si stendeva la città: i quartieri popolarissimi, l'Arno grande e lento, il cupolone del duomo, la torre civica con l'orologio e infine la sagoma degli stabilimenti industriali con il villaggio di fabbrica.

"Città tentacolare" pensò e rise di quel paese di provincia che comunque era il suo. Sembrava migliore a vederlo da lassù. Un paese ci vuole, chi l'aveva detto?

Rimase così in osservazione, mentre rifiatava e riprendeva forza; la testa girava un po': carenza di zuccheri, eccesso di età.

Gli piaceva sfidare il pericolo, prendersi un rischio, gli sembrava che tutto quanto avesse più senso poi: in fondo la vita...

Però, una volta arrampicato sull'impalcatura, in equilibrio precario, guardava in basso e pensava all'operaio di vent'anni schiacciato da un muletto, al giovane falegname folgorato da una scarica elettrica e a tutti gli infortuni sul lavoro.

Possibile, nei miracolosi novanta, rischiare la vita e morire ancora di lavoro, un'attività per vivere, campare una famiglia, costruirsi un futuro; orribile come tutte le morti, i ferimenti, le devastazioni, come tutte le guerre senza senso né verità trasmesse in tivvù.

E allora, mentre guardava le cose dall'alto, e fissava i ganci all'intelaiatura, ripeteva tra sé: "ricordati che sei su un precipizio, ricordati che sei su un precipizio" e si salvava.

Rammentava quella volta che, come in un'allegoria, un agnellino, uscito dal gregge, si era inerpicato lungo l'orlo di un cavalcavia della superstrada. Atterrito, era rimasto così, sospeso e belante sul ciglio, a picco sulle corsie sottostanti.

Il traffico fu interrotto per timore che la bestiola si sfracellasse o forse più semplicemente per paura che, precipitando su una macchina, combinasse dei danni.

Anche la sua auto era rimasta bloccata e tutti fuori dalle vetture, immobili in quella strada a scorrimento veloce, a guardare in su, verso la povera bestia innocente, irrigidita dalla paura. Una cosa apparentemente di nessuna importanza che però interessava e coinvolgeva tutti, lui compreso.

Oggi, rifletteva, nessuno più si ferma per qualcosa o per qualcuno, forse perché tutto quanto sembra irrimediabilmente attenere, più che al vero, al verosimile, non ci appartiene e i collegamenti tra le cose, i giudizi sono saltati.

Con le mani scacciò un insetto fastidioso, poi finalmente slacciò le corde che aveva tenuto annodate dietro la schiena durante la salita, passò i capi sopra l'intelaiatura e li fece scorrere in basso urlando agli uomini: "Attenzione, corde!" e poi "Forza, tirate!".

Il grande schermo bianco saliva lentamente, ora gonfiandosi al vento, ora schiacciandosi contro l'impalcatura.

"Attenti s'impiglia! Fermatelo in fondo! Guardate la luce ai lati: a destra, a sinistra" gridò. "Soprattutto a sinistra!" aggiunse e sorrise.

Gli uomini, in basso, si muovevano ritmicamente ai tiranti, alle funi. Sembravano più piccoli e vecchi a vederli di sopra, schiacciati verso terra, ricordavano i battellieri del Volga e a tendere bene, ma proprio bene, l'orecchio pareva di udire il loro mesto canto di lavoro: "Sorge l'alba, triste e scialba! Al lavoro torniam, un canto leviam...Alle gomene, alle gomene! forza ancor, tira ancor, mostra il tuo vigor!".

O erano i marinai del Pequod e lui, con il volto di Gregory Peck e la voce di Orson Welles, in cima alla tolda, affacciata sul grande sudario del mare, a lanciare segnali: "Laggiù soffia! Balena bianca!". E tutto il tempo quel cielo sorridente e quell'oceano insondato.

L'operazione si svolse, quando calma, quando frenetica, per circa due ore. Dopo che tutto fu fatto, venne il momento di scendere; così si calò lungo l'impalcatura, passando attraverso le piante. Con un salto toccò di nuovo terra e si fermò una buona mezz'ora, seduto su una poltroncina dell'arena estiva, a riposarsi e osservare un lavoro ben fatto.

La tela plastificata, autoriflettente si stagliava in tutto il suo nitore nella canicola estiva. Occorrevano occhiali da sole per sostenerne la vista. Lui si abbronzava così: fronte spaziosa, rosso mattone, braccia scure fino alle mezze maniche. Il resto no, era contrario al sole. E alle domande dei curiosi che cercavano di scoprire l'origine di quella precoce tintarella "lampada? Sardegna?" rispondeva: "no, schermo panoramico".

Del resto era contrario anche ai viaggi, alle ferie. Trovare spiagge e acque pulite era divenuto sempre più stressante: lunghe file di auto, afa e bagni di sudore. Troppi soldi, troppa folla, troppo sole senza riparo, troppa sporcizia; il mondo tendeva al peggio in maniera invincibile.

Preferiva, quando poteva, trattenersi a letto nel pomeriggio. Osservava in controluce i palazzi e i riflessi che filtravano tra gli avvolgibili socchiusi gli suggerivano il luccicchio dei tramonti sulle isole e si assopiva pensando: "il mio mare!". Chiuse gli occhi.

Issare quella tela bianca era esaltante come compiere un'impresa e poi, in bilico su un asse o al sommo di una scala, appendere un gancio o snodare la corda e farla scorrere nelle asole. Era come spiegare una vela, una vela speciale su cui la notte si proiettano le immagini dei film, le emozioni di una storia di molte storie insieme. E lui e i ragazzi e gli uomini che lo aiutavano erano i marinai del cinema, di quella nave che va, per un'ora e passa, oltre la vita, oltre le cose che non tornano.

A volte proiettava lui stesso: i titoli, gli attori, le attrici gli sembravano sempre diversi e sempre uguali, ma l'importante era che ad un'ora convenuta la gente si ritrovava, si spengevano le luci e lui, proprio lui, avviava la macchina, dava luce all'ordigno portentoso della modernità e sul suo schermo magico accendeva per tutti la lampada dei sogni e della fantasia. Così, quando gli capitava di parlarne con i figli, credeva bene di vantarsene e diceva "questo schermo l'ho montato io, questo film lo proietto stasera" e loro ascoltavano zitti, con la serietà precoce dei giovani, tremenda, giudicatrice: "Proiezionista, montatore di schermi! Che cazzo di lavoro fa nostro padre !?" pensavano forse preoccupati.

Pontedera, 19 Luglio 1994

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati