La classe
di Marco Celati - lunedì 18 luglio 2022 ore 08:00
La notte si sente un profumo di erba tagliata. Come “fiori pestati sui sassi”, avrebbe detto Pavese. Un odore di fieno a ricordarci che qui un tempo era campagna, mietitura, lavoro dei campi. Poi ad un tratto un vento si leva e porta aria fresca e un sentore di pioggia, una speranza nella calura estiva.
Scrive da lontano un compagno di classe, sulla costa atlantica, da “uma casa portuguesa”, che sente gli Alisei. Bei venti. Propizi. Quelli che spinsero Colombo, Vespucci, Magellano, i navigatori verso il nuevo mundo. Che soffiano a Capo Verde dividendo le isole: di sopravvento e sottovento. Che spingono all’avventura, alla vita. Cittadini del mondo, anche solo a volerlo, un mondo nuovo e diverso. L’amico - bella testa - lo ricordo magro, leggero, libero come il vento.
Sembra ieri, ma non è. Ne è passato di tempo e quello che è fatto è fatto. Le campagne, le fabbriche, i negozi, ciò che è stato e sarà. In casa ci sono trenta gradi, il letto è un sudario. Un gatto miagola, lamentoso, per le scale. Mi alzo, inforco i pantaloni, scendo e gli apro la porta del palazzo. Il riscontro dell’aria della notte con il caldo dell’andito mi investe e resto un po’ nella corrente a godermi il fresco. Il gatto non si vede, ha smesso il miagolio e forse aspetta, acquattato, prudente, nel buio. Spaventato, forse. Gli lascio aperta la porta di strada, risalgo e rientro. Non si è più sentito, sarà uscito per i suoi giri notturni. La libertà della notte e il suo mistero.
In certe bestie ci immedesimiamo, noi che siamo più bestie. Da ragazzo mi sarebbe piaciuto il cavallo. Cavallo pazzo. Avevo anche la foto del capo indiano, la tenevo insieme alla carta d’identità che gli arbitri chiedevano prima della partita. Di calcio, ovviamente. E mi prendevano per scemo. E lo ero, ovviamente. Ma correre, correvo. Da grande e più vecchio i cavalli da premiare ad un concorso ippico, mi facevano paura. Nervosi, enormi, scalcianti, schiumanti dalla bocca con il morso tirato. Uno lo vidi uccidere, si era rotta una gamba urtando un ostacolo e l’agitava, imbizzarrito, nell’aria. Dice che non si possono curare, non guariscono, troppo peso sugli esili garretti. Chissà se è vero. Magari è perché non servono più. Poveri, inutili animali! I miei cavalli pazzi, abbattuti e sconfitti dalla storia e dal tempo. Dall’inutilità, dall’insensatezza della vita.
Un altro compagno di scuola è andato a prestare soccorso ai profughi ucraini ai confini della guerra. Lo sapevamo di poche parole. Taciturno, ai tempi del liceo. Essenziale. Una volta gli chiesi che ora era, mi mostrò l’orologio al polso e quella fu la risposta. Ma i fatti, specie le buone azioni, scontano le parole. Si dice che queste le porti via il vento, come le biciclette i ponsacchini, oltre agli orsi che è una leggenda strapaesana. Quantunque, sul portar via le biciclette, una vulgata sia favorevole anche ai livornesi. E chissà che parole portano via e dove, i venti Alisei.
Le parole traggono in inganno. In finlandese si scrive “katso merta” e si pronuncia anche peggio, per dire “guarda il mare”. Sarà perché il loro è grigio e gelido. Le parole, mi sono sempre chiesto come si sono formate. Una cosa e un suono. E così per una persona, una bestia. Un suono che richiama un rumore? Una voce? O una semplice convenzione, un’associazione di pensiero. E poi la parola scomposta in vari suoni e composta di nuovo di suoni e di segni: un alfabeto. Oppure disegni, raffigurazioni stilizzate delle parole: geroglifici. Perché noi siamo gli animali più evoluti, che ce lo meritiamo o meno. Addirittura sociali.
La nostra classe nel 1968 sostenne la maturità. Con successo, che ci siamo meritati o meno nel corso degli anni. Erano anni inquieti del resto. Il mondo sembrava cambiasse e in parte è cambiato e noi con il mondo. Chissà se abbiamo fatto epoca, nemmeno volevamo. Sfortunata generazione che vide “a portata di mano una meravigliosa vittoria che non esisteva”. Penso che abbiamo fatto del nostro meglio. A volte siamo stati perfino allegri. Gioventù. Qualcuno purtroppo anzitempo se n’è andato. “Abstulit atra dies et funere mersit acerbo”, avrebbescandito l’insegnante di latino. A loro va il più commosso pensiero. La morte ci separa e spesso anche la vita. Esami, maturità sono parole grosse, non finiscono mai. La classe non sarebbe acqua, ma non c’abbiamo badato. Compagni di classe, chissà se amici. Compagni poi, ognuno la pensa come crede o come capita. Ed è difficile dire, più che il rispetto. Comunque classista la società era ed è, le differenze sociali aumentano più che diminuire, ma pochi ci badano ormai.
La scuola tra l’altro a questo serviva: a istruirci e farci crescere uguali, almeno in partenza. Poi chi corre va. Ma sostenersi sarebbe sempre bene. Occupammo la scuola perché ne volevamo una migliore, almeno dell’ex ombrellificio che ci ospitava. Alcuni di noi furono denunciati, processati ed assolti. Un Liceo Scientifico nuovo arrivò molti anni dopo, ma è bello piantare alberi della cui ombra altri godranno. Ho iniziato da lì e ho continuato, nel bene e nel male. Alla fine resta addosso una grande malinconia, per il passato e per il futuro. L’indole è quella, mi dispiace compagni. È come rievocare un “Techetechetè” delle nostre vite. Sembra ieri, ma non è, e quello che è stato è stato. Ora sta ai nostri figli e nipoti e a tutti quelli, fortunati e sfortunati, che vengono dopo.
Pontedera, Luglio 2022
Marco Celati