Attraverso i vetri
di Nicola Belcari - lunedì 17 ottobre 2022 ore 08:00
Percorrendo la superstrada in un tardo pomeriggio col sole declinante, un riflesso maligno annebbia la visuale e mostra la patina grinzosa e rugosa di rivoli di polvere raggrumata e seccata sul vetro dell’automobile. Nel mentre, un miasma malefico di smog di vari gas di natura imprecisabile e fumo di bruciature di sostanze sconosciute filtra nell’abitacolo nonostante i vetri chiusi. Le lenti oscuranti, quasi nere, che porto fanno il resto. Una nuvola di fumo s’alza in lontananza solo per il momento perché è nella direzione di marcia e diradandosi si sparge in diagonale verso la carreggiata.
La fila delle macchine procede veloce e ininterrottamente in entrambi i sensi.
L’atmosfera marroncina come velata da una polvere cosmica ha l’aria della fine del mondo. Sembra d’essere attorniati da macerie e rifiuti, in una campagna in abbandono, disordinata, coperta da uno strato di sudiciume: un paesaggio sconvolto, segno della potenza distruttiva dell’uomo.
Ho accanto mia moglie che guarda fisso in avanti annichilita dal barbaglio dell’angoscioso tramonto filtrato da occhiali da sole da due soldi che immagino drammatizzeranno oltre il giusto la veduta. Avvertiamo di noi stessi l’aspetto curioso e insolito che dà a due vecchietti quella protezione dai raggi solari ancora brucianti e obliqui.
Le chiedo: “Hanno sganciato la bomba?” Scherzo con l’amarezza di quando, come si dice, si ride per non piangere, di fronte alla degradazione, allo squallore della modernità, al paesaggio orrendamente deturpato. È una sconsolata battuta in forma di finta domanda che si sostituisce al “pianto”, almeno ideale, che tutto questo susciterebbe. No, non è l’effetto della bomba, non ancora; è la condizione normale della piana di una città illustre, ricca di storia e degna di fama, tanto esaltata dalle guide turistiche e dagli agenti immobiliari.
Il presagio d’apocalisse originato dalla paura è disvelamento d’una vita da reclusi, della separazione dalla Natura.
Da un momento all’altro un incidente potrebbe interrompere questo correre continuo, gettando nello sgomento, nell’impotenza di decidere della propria vita per ore, prigionieri in una striscia d’asfalto appiccicosa e maleodorante.
Così la nostra corsa verso un’uscita pare una fuga dal pericolo per raggiungere la propria casa dove trovare scampo. Là, dove respirare l’aria condizionata e guardare il mondo attraverso la tivvù.
La casa, l’unica prigione sopportabile e quasi amata, adornata dai fiori del giardino, ammirati dal vetro terso della finestra, al riparo dalle zanzare assedianti.
Fuori, gli alberi, le foglie delle piante, l’erba con la loro bellezza ancora intatta sono ciò che rimane della bellezza del mondo, sono il sogno del prigioniero.
Nicola Belcari